martedì 26 luglio 2016

Il nebuloso universo degli integratori.



Entrando in palestra prima o poi ognuno di noi si imbatte, prima per sentito dire poi per esperienza diretta, nel magico mondo degli integratori. Argomento alquanto discusso, su cui se ne sentono tante. Da chi pensa che le proteine in polvere “facciano dimagrire”, a chi le include erroneamente tra le sostanze dopanti, a chi sostiene che alcuni integratori abbiano degli effetti miracolosi, a chi crede che abbiano magici poteri ipertrofizzanti. Le dicerie sono tante, e questa non sarà in alcun modo una delle tante dissertazioni su quali e quanto possano avere una finalità concreta, dal momento che a parer mio, in questo campo, tutto può essere utile ma niente è indispensabile: questo vuole solo essere uno spunto di riflessione ed un monito, per capire anche quali siano i possibili effetti negativi sulla mente in cui ci si può imbattere se le nostre convinzioni non combaciano con la realtà. L’integratore, come dice la parola stessa, è un prodotto che ha la finalità di “integrare” ovvero di completare un’alimentazione che è carente in qualcosa. Nel mondo dello sport ne esistono svariati tipi, ognuno dei quali può avere un senso solo se contestualizzato e ponderato all’interno di un piano strutturato e individualizzato.

Qual è il dilemma?

Qual è il dilemma, quando ci approcciamo a questo complesso e intricato universo? Il problema non è la realtà stessa, quanto le distorsioni che noi facciamo della realtà in base ai nostri “schemi mentali” e alle nostre credenze, che porta al risultato di ottenere anche effetti controproducenti.
È nella mente di molti, in particolare nei giovani che si approcciano al mondo del fitness, la convinzione che l’integratore sia essenziale, che gli effetti (specialmente riguardo alle proteine in polvere) siano quasi miracolosi, o che contribuisca e sia fattore determinante per l’ipertrofia. Questo è ovviamente sostenuto dalle continue campagne di marketing delle aziende che li producono (e li vendono, e ci guadagnano..) che in modo sottile diffondono l’idea che se vai in palestra ma non integri, non sei un vero sport addicted. Il problema di focalizzare l’attenzione in modo esagerato sull’integratore (informandosi su quali siano i migliori, i “più efficaci”, in quale dose, in quale momento del giorno, con quale liquido ecc..) porta a perdere di vista le variabili essenziali su cui strutturare i propri obiettivi, ovvero l’alimentazione e l’allenamento. Il convogliare la propria attenzione su un aspetto superficiale, dilatandone nella propria mente l’importanza, invita a sottostimare e a tralasciare ciò che è davvero importante dunque, oltre ad avere effetti nulli, può avere anche un effetto deleterio, perché nessun piano che si concentri sui “migliori integratori” ma con alimentazione e allenamento “improvvisati” porterà ad un risultato ottenuto mettendo al centro gli aspetti che hanno primaria importanza.
Nel caso di alcuni specifici integratori, ad esempio i multivitaminici, si corre il rischio di incappare nel meccanismo per cui l’utilizzo dello stesso porta ad un “autogiustificare” la carenza sempre più marcata nell’utilizzo di alimenti nutrienti, portando alla svalorizzazione della scelta dei cibi.
Per quanto riguarda gli energizzanti si potrebbe ottenere una conseguenza positiva grazie all’effetto placebo: un integratore che sulla carta promette incremento delle energie può portare, a prescindere dalle reali proprietà, all’esito desiderato, se la persona si convince del beneficio. L’incremento della prestazione dunque non dipenderà solo dal prodotto, ma da quanto la persona che ne fa uso è suggestionabile ad un’idea (questo non vuol dire che essi non abbiano alcun effetto, ma che questo può essere mediato dalla mente di chi li utilizza, e dall’”aspettativa”). Questo ovviamente non può avvenire con le proteine in polvere, perché a parità di prestazione, anche se ci si convince che il muscolo crescerà grazie al loro utilizzo, difficilmente quello si convincerà della stessa cosa, crescendo realmente.

Sovrastimiamo forse il loro “Potere”?

Una conseguenza a mio avviso piuttosto negativa del sovrastimare l’effetto dell’integratore e di “affidargli” determinati oneri è lo spostare il locus of control all’esterno di noi stessi. Il locus of control è il  “luogo” figurato entro cui l’individuo ripone la responsabilità degli eventi: esso può essere interno, esterno o “superiore”. Nell’ottica di un cambiamento o di un comportamento finalizzato a raggiungere un obiettivo se si attribuiscono i risultati, che siano positivi o negativi, a noi stessi, sarà più facile manipolare le variabili sotto il nostro controllo, con consapevolezza e criterio, al fine di aggiustare il tiro. Se invece deleghiamo la responsabilità dei nostri risultati a qualcosa che è esterno a noi (in questo caso un prodotto) si possono verificare due eventi: nel caso di raggiungimento degli obiettivi, la persona potrà essere soddisfatta ma non proverà un incremento dell’autoefficacia; nel caso di fallimento, la persona lo attribuirà al prodotto, rischiando dunque una demoralizzazione che porta a non rimediare i fattori che realmente hanno inficiato sul raggiungimento dei risultati ma alla ricerca di un “prodotto migliore”.
Ultimo, ma non per importanza, l’effetto diretto e negativo che ha l’avvicinarsi senza conoscenze a questo insieme di prodotti a cui porta la credenza del “più ne impiego più ne beneficio” comune a molti, ovvero l’abuso (non necessariamente dannoso ma certamente inutile).
Quindi ciò che è fondamentale capire quando ci si accosta a questa categoria di supplementi è il valutarli per quello che realmente apportano, e non per quello che noi pensiamo o desideriamo che facciano. La coerenza tra l’effetto previsto e l’effetto ottenuto e la consapevolezza nell’utilizzo è necessaria per ottimizzarne il senso all’interno di un piano studiato.
Il mio articolo per Ironmanager

mercoledì 20 luglio 2016

La CARBOFOBIA: una paura dei nostri tempi che può avere alcuni rischi



 Il termine fobia, in psicologia, indica un’irrazionale e persistente paura di un determinato oggetto (situazione, animale, persona) che porta il soggetto a vivere una sensazione di disagio, di autonomia ristretta e di continuo evitamento delle circostanze che potrebbero metterlo a contatto con l’oggetto della fobia (che, nella realtà, non rappresenta reale pericolo).
Per quanto riguarda l’ambito dell’alimentazione, questa infondata paura è spesso espressa nei confronti di determinate classi di alimenti: in questo caso specifico affronteremo la “fobia dei carboidrati” (già da tempo dibattuta in America e denominata “carborexia”), ovvero il categorizzare i cibi ad alto contenuto (in percentuale rispetto agli altri macronutrienti) di carboidrati come “cibi cattivi”, da evitare, per l’immotivata convinzione che facciano ingrassare.
Partendo dal presupposto che non esiste alcun reale motivo per cui tale paura possa essere fondata, dal momento che è appurato che sia l’eccesso calorico, e non una determinata classe di alimenti, a portare ad un accumulo di grasso, è però evidente quanto stiano dilagando “diete di moda” che propongono la quasi eliminazione dei carboidrati al fine di ottenere una perdita di peso nel breve termine. È pacifico che una dieta che porta alla quasi abolizione di un macronutriente che nell’alimentazione media apporta circa il 50% di calorie, nonostante si incrementino (generalmente in maniera inadeguata) i livelli degli altri due, porterà inevitabilmente ad una perdita di peso dovuta al deficit calorico (sebbene poi siano evidenti gli spesso scarsi risultati di tali diete nel mantenimento del peso nel lungo termine, sia per la modalità della perdita del peso che per la sostenibilità del regime). Questo ha portato all’errata convinzione che il carboidrato sia il male, il nemico da evitare per perdere kg.

Non aiutano di certo a sradicare questa convinzione i messaggi lanciati dai media e dall’industria alimentare, i primi diffondendo la cultura della forma perfetta con alimentazioni estreme sponsorizzate da modelle e attrici, la seconda proponendo continuamente alimenti “low carb” alternativi ai classici.
Non di rado avviene anche che alcune persone si auto convincano senza reale riscontro di essere intolleranti al glutine, o addirittura proprio ai carboidrati (intolleranza peraltro inesistente), denunciando sintomi talvolta esasperati, probabilmente causati semplicemente dall’ECCESSO, e questo porta alla più o meno conscia conseguenza di restringere l’assunzione degli alimenti in cui sono presenti. Eliminando quindi i cibi che li contengono, senza compensare adeguatamente con alimenti alternativi, sentendosi per forza di cose “alleggeriti” e notando una perdita di peso, si rinforza dunque l’errata convinzione, confermando la scelta e mantenendola, col rischio di entrare in un circolo vizioso in cui spesso si ha il terrore di reinserire determinati alimenti nella propria quotidianità.
La necessità di voler trovare un capro espiatorio a cui attribuire la “colpa” del proprio sovrappeso è un meccanismo mentale inadeguato, da cui proteggersi, in quanto ogni alimentazione bilanciata che contempla un deficit calorico porta ad una perdita di peso. È vero che all’eliminazione del carboidrati (spesso “fai da te”, dunque con un regime fortemente ipocalorico) consegue nel breve periodo un decremento ponderale (notare bene che non si tratta solo di PERDITA DI GRASSO ma in buona percentuale di liquidi e di massa muscolare). Quello che però bisogna tenere in conto è che l’immediata e repentina perdita di kg porterà inevitabilmente ad uno stallo, e a livello psicologico dunque ad un abbattimento e scoraggiamento atti a determinare l’abbandono della restrizione e un ritorno alle abitudini precedenti (con conseguente aumento di peso).
Dunque, per concludere, nell’approccio alla dieta è necessario SEMPRE ricordare che:
-è bene parlare di “alimenti”, non di “carboidrati” (valutare in primis la qualità e la quantità, non la classe generica);
-Non esistono cibi cattivi e cibi buoni, è semplicemente necessario vivere nell’ottica della moderazione;
-Nessun macronutriente fa ingrassare, è l’eccesso di calorie che porta all’incremento del peso;
-Le scelte drastiche rischiano di avere vita breve, portando dunque ad una inversione di tendenza nell’eccesso opposto, oppure radicandosi in disturbi più complessi;
-A meno di obiettivi sportivi nel breve termine o patologie che necessitano di piani strutturati e limitanti, ha davvero poco senso imporsi alimentazioni troppo selettive.

Il mio articolo per Studio Trainer Italia

venerdì 8 luglio 2016

Passione ed ossessione: il confine tra il benessere ed il malessere, nella vita, nello sport e nell’alimentazione



Esiste una linea sottile, impercettibile ma allo stesso tempo netta, al quale spesso rischiamo di avvicinarci, senza rendercene conto. Un confine che è pericoloso, quanto semplice, superare. Si tratta del limite tra la passione, sentimento pervasivo, coinvolgimento emotivo e forte inclinazione verso un aspetto della propria vita  che provoca piacere, e l’altro lato della medaglia: l’ossessione. Un pensiero fisso, invasivo, che tormenta e non lascia spazio ad altro; una gabbia di cui, una volta varcato l’ingresso, modelliamo e intrecciamo le sbarre giorno dopo giorno, fino a renderle sempre più strette, ad esserne inesorabilmente schiacciati, spesso in modo inconsapevole, spesso assecondati da una società che impone un modello di perfezione di cui rischiamo di divenire schiavi.
Nello sport e nell’alimentazione questa sottile linea definisce il confine tra benessere (ed equilibrio) e malessere. La passione porta a vivere con intensità quello che ci rende felici e a rispecchiarsi in tutti gli altri aspetti della vita, mantenendo però la propria definizione, dilatando i sentimenti positivi e dando un colore alla propria esistenza. Essa disegna il sorriso con cui svegliarsi la mattina, la forza con cui affrontare la giornata, rimanendo però esclusivamente promotrice del benessere, incasellata in determinati spazi della quotidianità, senza straripare divenendo preponderante rispetto al resto. È qualcosa che sentiamo scorrere nelle vene, che definisce una parte di noi, che ci scivola dentro e fuori senza però arrivare a penetrarci e scalfirci come una lama. Il superamento del confine avviene quando, da colonna sonora delle nostre giornate diventa suono che rimbomba nella testa. Un’idea fissa, penetrante, che ci costringe, ci impone di non avere scelta, ci lega ad un dovere, all’ansia di non poter fare in modo diverso. La voglia e la pretesa di essere sempre di più, e la sensazione di essere sempre di meno. E così scatta nella mente l’idea ossessiva ed il terrore di perdere risultati, l’allenarsi meccanico, privandosi della sensazione del piacere, la depressione per aver saltato un’ora di palestra a causa del lavoro, le giornate grigie a causa del fatto che non si potrà effettuare la sessione; il declinare gli inviti a cena, il passare interminabili mattinate in un supermercato alla ricerca degli alimenti “perfetti”, l’osservarsi per ore di fronte ad uno specchio passando alla lente ogni centimetro del corpo per trovare ogni minimo difetto, il conteggio ossessivo delle calorie, con la convinzione e la necessità di controllare ogni singola particella assunta. Il bisogno soffocante di raggiungere una perfezione che non esiste, e che proprio per questo motivo ci incastra in un continuo e ripetitivo percorso di malessere, di disagio. Dunque, vivere la vita in equilibrio implica il mantenersi sulla sponda della possibilità di scelta, della coscienza, della consapevolezza e della serenità, per migliorare se stessi e volare sempre più in alto, e non rischiare di venir incastrati nella prigione creata con le nostre stesse mani. La passione è flessibile apertura alla vita, l’ossessione mera chiusura nella rigidità.

Il mio articolo per Ironmanager