venerdì 26 agosto 2016

Le App Contacalorie: tra tendenza e dipendenza



Le App Contacalorie, nate da pochi anni, presenti in molti degli smartphone dei fitness addicted e delle persone a dieta, sono strumenti che possono rivelarsi utili da una parte, ma anche piuttosto rischiosi, se approcciati con superficialità o con troppa rigidità. Vediamo insieme dunque le due facce di questa medaglia.

Cosa vuol dire “saper usare una app contacalorie”? 

Innanzitutto è essenziale conoscere il proprio fabbisogno, stimato preferibilmente grazie ad un professionista, e non in modo casuale (spesso affidandosi alla stessa app che di noi conosce poco o niente, oppure a stime approssimative per sentito dire: “si dimagrisce con 1200 kcal” oppure “tenendo bassi i carboidrati”). Inoltre è necessario avere alcune conoscenze riguardo alla composizione dei cibi, per non rischiare di inserire nel conteggio l’alimento errato (spesso ad esempio avviene di immettere un prodotto calcolato da cotto invece che da crudo, rischiando di sballare di molto il calcolo), considerando che molti di essi sono inseriti dagli altri utenti, e dunque non necessariamente esatti. Infine bisognerebbe mettere sempre in primo piano la qualità dei macronutrienti che assumiamo, per una questione di salute.
Queste applicazioni se usate e gestite con consapevolezza hanno diversi punti favorevoli, specialmente per le persone che necessitano per un determinato periodo di avere una stima di ciò che assumono per ragioni dietetiche (dimagrimento o sport). Esse infatti servono a tener traccia di quello che si assume, avendo in linea di massima un range entro cui stare e potendoselo gestire come si vuole. Ciò permette di aggiustare il tiro nell’arco della giornata/settimana, riuscendo ad inserire nella propria alimentazione quotidiana anche piccoli “sgarri” (a livello qualitativo) che però non impattano sul bilancio calorico giornaliero, favorendo dunque il raggiungimento degli obiettivi prefissati con elasticità e serenità.
Dovrebbero venire usate, a meno di necessità particolari, per delimitati periodi di tempo, con la finalità di capire se ciò che faremmo senza il calcolatore ci porterebbe ad una nutrizione bilanciata in base al nostro fabbisogno, tenendo conto sempre che ciò non andrebbe valutato in ottica quotidiana, ben più settimanale. Dunque, sarebbe utile usarle alimentandosi “come si farebbe senza”, per comprendere se ci siano degli errori determinati da eccessi o carenze, per prenderne coscienza ed eventualmente apportare modifiche. Pertanto come sempre sono l’equilibrio, la consapevolezza ed il sereno rapporto col cibo a doverla fare da padrone.
Altrimenti, in una sorta di rieducazione alimentare, potrebbero essere utili per apprendere come regolarsi e calibrare con elasticità le giornate, come quando per conoscere una nuova città ci forniamo di una mappa, ma con l’andare del tempo dovremo pian piano diventare autonomi nella conoscenza dei percorsi, delle strade da seguire, delle vie più comode, più rapide, familiarizzando col territorio in modo da non dipendere dalla cartina.
Pensare che utilizzarle sia la soluzione universale ai propri problemi legati alla gestione del cibo, o che siano infallibili, approcciarvisi senza saperle utilizzare rischiando di fare ancora più confusione e perdere la motivazione di fronte all’impasse con lo strumento (se la motivazione non è forte e lo strumento viene interpretato come unico solutore della situazione), sostituirle in toto ad una figura qualificata, perdere il gusto di mangiare, oppure il far venir meno dell’importanza della qualità dei cibi da cui provengono quelle calorie sono solo alcuni dei comportamenti, cognizioni e conseguenze che possono diventare poco funzionali. Quello che maggiormente può danneggiare, invece che aiutare, è senza dubbio l’entrare nel circolo vizioso del conteggio opprimente, iniziando a gestire il corpo come una macchina e il raggiungimento ossessivo dei macronutrienti il fine ultimo dell’alimentazione, perdendo di vista il fatto che esse servono per avere una stima, ma lo scopo di una dieta è imparare ad autogestirsi e non diventare succubi di una calcolatrice. Un meccanismo psicologico talvolta collegato al conteggio rigido è quello del tutto o nulla: il pretendere di essere fiscale col calcolo può portare in caso di inadempienza o di piccolo sgarro a mandare al’’aria l’intera giornata (il pensiero controproducente collegato alla situazione è dunque “ormai è fatta, tanto vale continuare”). Altro fattore poco proficuo è la possibilità che l’individuo inizi a provare una sorta di ansia in tutte quelle situazioni in cui non è in grado di gestire la propria dieta e l’inserimento esatto dei macronutrienti all’interno dell’App (quando non si hanno le tabelle nutrizionali/valori, o nelle occasioni sociali in cui non si può tener traccia precisa dell’introito, dunque rischiando anche un certo grado di ritiro sociale per mantenere la sicurezza). Contare le calorie e i macronutrienti al centesimo ha davvero poco senso, dal momento che i valori nutrizionali standard non tengono conto delle variabili che impattano sulla quantità di macronutrienti del prodotto (pensiamo ad esempio al livello di maturazione di una mela, alla quantità di acqua/proteine/grassi in un pollo rispetto ad un altro) e che il corpo non è una calcolatrice, ma mantiene una omeostasi e si aggiusta in maniera flessibile rispetto a minimi cambiamenti.
Dilatare in maniera eccessiva e poco razionale l’affidabilità, la precisione e la responsabilità di uno strumento del genere, proiettando su di esso i risultati ed i meriti del proprio dimagrimento/obiettivo, traslando il locus of control da interno (in cui noi stessi siamo artefici di ciò che avviene) ad esterno (in cui è appunto il dispositivo ad essere responsabile esclusivo del risultato) rischia di far diventare dipendenti da essa, non riuscendo più a “fare senza”. La perdita di autonomia e la deresponsabilizzazione conseguente riguardo alla gestione della propria alimentazione può portare ad una perdita della sensazione di autoefficacia. È fondamentale, come anticipato in precedenza, ricordare anche che in caso di problemi alimentari derivati ad esempio da fame emotiva o da un approccio psicologicamente sbagliato col cibo, l’App è solo un palliativo, un “controllore” a cui aggrapparsi momentaneamente, che non risolve il problema ma semplicemente lo mette in “stand by”.
È pacifico che spesso vi può essere una predisposizione nel finire dipendenti da questi strumenti. Ma come per il dilemma della nascita dell’uovo o della gallina, non sappiamo se sia la predisposizione stessa a fare avvicinare all’applicazione, oppure l’approccio con l’applicazione a determinare la slatentizzazione di una tendenza al controllo già presente, o addirittura a dare l’inizio dal niente all’ossessione del conteggio maniacale. Di sicuro l’ossessione per il conteggio calorico non nasce a causa dell’introduzione delle applicazioni conta calorie sui cellulari, ma è fenomeno precedente. Quello che però è certo è che queste applicazioni hanno reso questa pratica, prima a retaggio di pochi, dilagante e “di moda” facendola passare come “ordinaria” e mettendo a rischio molte persone suscettibili, oltre che poco informate in materia.
Per concludere quindi è giusto ricordare sempre che un’Applicazione conta calorie deve essere approcciata in modo consapevole ed equilibrato, utilizzata come ausilio e supporto dandole il giusto peso, rimanendo sempre comunque noi stessi gestori e responsabili della nostra alimentazione, con la serenità che deve essere sempre alla base della relazione col cibo.

Il mio articolo per http://www.studiotraineritalia.com/le-app-contacalorie-tra-tendenza-e-dipendenza/

mercoledì 24 agosto 2016

Mangiare sano: cosa significa veramente

Sempre più persone decidono di iniziare a mangiare sano, chi per moda (rischiando anche di prendere filoni “social” che di sano hanno ben poco), chi per scelta consapevole.
Innanzitutto, cosa significa “mangiare sano”? E soprattutto, rispetto a che cosa?  È davvero così dispendioso fare scelte mirate per preservare e promuovere la salute? Mangiare sano è costoso? Tanti lo pensano, molti lo esprimono e alcuni la utilizzano come “giustificazione” per fare scelte discutibili.
Appellarsi alle definizioni spesso risulta fuorviante. Esiste il cibo sano? No. Esistono le persone sane, determinate dalle loro scelte, abitudini e comportamenti (oltre che, come sappiamo, da variabili al di fuori del nostro controllo), e l’approccio sano all’alimentazione: il cibo può essere più o meno nutriente. Ricordando che il termine salute non implica solo l’aspetto fisico, ma anche l’aspetto psicologico, dunque ottimizzarla prevede anche il vivere con serenità le proprie scelte.
La selezione degli alimenti è uno dei primi passaggi per coloro che aspirano a fare un passo in direzione di un miglioramento della propria dieta (intesa come stile di vita). Scegliere vuol dire conoscere per valutare che rotta prendere in base ad una serie di percorsi.
L’industria non aiuta. Il marketing “crea” bisogni e necessità nella testa dell’acquirente, che si convince che determinati alimenti siano insostituibili e indispensabili nell’ottica di un’alimentazione sana. Bacche di goji, semi di lino, riso venere, amaranto, quinoa, kamut… Partendo dal presupposto che nessun alimento è INDISPENSABILE per la nostra salute e la nostra dieta, molte persone hanno la convinzione che senza inserire tali alimenti nella propria quotidianità implichi il mangiare “meno bene” rispetto ad altri, ed è per questo che poi si radica la convinzione che mangiare sano “costa caro”. Per non parlare della questione “biologico”, su cui ci sarebbe di cui discutere.


Mangiare sano implica inoltre non solo la scelta della materia prima, ma anche le modalità di cottura, la varietà degli ingredienti, il rispetto della stagionalità.
Inoltre non implica “mangiare perfetto”, anche perché la perfezione nell’alimentazione non esiste, e anche se esistesse non sarebbe certezza di prevenzione delle patologie (in quanto influisce solo in parte nell’esacerbarle, e questo è bene tenerlo sempre in mente). Esiste il mangiare “il meglio possibile”, quindi se si parte da un’alimentazione scriteriata e mal assortita, qualsiasi consapevole passo verso un miglioramento della propria gestione alimentare sarà positivo, senza necessariamente mirare troppo in alto. Dunque non è funzionale avere in mente una netta linea di demarcazione tra il mangiare sano e il non farlo, ma contemplare questo dualismo piuttosto nell’ottica di un continuum che preveda due opposti (entrambi probabilmente poco positivi) su cui potersi collocare senza vedere o bianco o nero.
L’ottica giusta dovrebbe essere “fare del proprio meglio, consapevolmente, senza farne una malattia”.
Di certo “mangiare sano” può prevedere una spesa maggiore in termini di tempo anche se, perfino da quel punto di vista, con un po’ di consapevolezza e di organizzazione sostenute da un briciolo di motivazione, ognuno può imparare ad autogestirsi nel migliore dei modi senza “rubare” troppo tempo alle proprie giornate. In ottica preventiva, anche se mangiare sano costasse di più, potrebbe essere visto come un “investimento” per il futuro.
Esiste uno stile alimentare (o scelta, intesa come alimentazione onnivora, vegana, vegetariana con tutte le sfumature del caso) “più sano” degli altri? Ad oggi, no. Può esistere il “più sano” per l’individuo, in base a intolleranze, patologie, reazioni del corpo o scelte di vita. Può esserci il “meglio” SECONDO ME, rispetto ad una scelta etica, ma non esiste un “più sano” di default. Una valutazione improntata alla salute ha come base il rispettare le necessità e le richieste del proprio organismo con responsabilità.
Tutto questo per dire che…? Che mangiare sano non può avere una definizione univoca o una pianificazione universale e NON costa di più. E soprattutto, mangiare sano non è un diktat o un’etichetta, è una fluida scelta quotidiana, che comporta consapevolezza e flessibilità. Ognuno deve essere artefice e promotore del proprio benessere senza lasciarsi demotivare da credenze poco realistiche e dettate dalla società o da coloro che “vendono” salute.

Il mio articolo per: Ironmanager

Scienza vs Quotidianità: Imparare a comprendere per riuscire ad applicare

Esiste la scienza, ed esiste il suo riflesso nella quotidianità. Esistono i principi della nutrizione ed esiste la loro applicabilità sulla persona. La scienza ha lo scopo di migliorare la nostra vita disegnando i confini nei quali è ritenuto utile mantenersi al fine di vivere una vita in salute il più possibile. Non ha lo scopo di porre rigidità, quanto più elasticità di scelta in base ad una serie di differenti possibilità, all’interno di principi generali. Non dichiara cosa è sicuramente meglio, ma afferma cosa ha più probabilità di apportare benefici e cosa ha più probabilità di nuocere, ma all’interno di questi due estremi si sviluppa un range ampissimo di variabilità, che modella non solo cosa è meglio in generale, ma cosa può essere meglio PER IL SINGOLO, in base appunto all’applicabilità nella propria vita. 
Spesso rimaniamo esterrefatti da dissertazioni scientifiche che scardinano credenze e preconcetti che abbiamo mantenuto nella mente per anni, e questo porta a vacillare, a cercare di comprendere chi ha ragione. Partendo dal presupposto che spesso determinate credenze si incasellano nella testa in base a “sentito dire”, è bene sempre cercare di capire se la fonte ha credibilità. Appurato questo, cerchiamo di comprendere a 360° quello che viene esposto, non parzializzando l’informazione o filtrandola in base alle nostre necessità cognitive, focalizzandosi solo su alcuni punti.
Se ad esempio ci viene detto che abbinando due alimenti si possono avere problemi digestivi, il messaggio non è “è vietato abbinare quei due cibi” ma che in alcuni soggetti sensibili è stata riscontrata difficoltà digestiva, e che se non abbiamo mai avuto problemi di sorta, è inutile iniziare a crearseli. Se ci viene detto che fare sei pasti al giorno non è essenziale, questo non implica che sbagliamo a farli, ma semplicemente che sarebbe controproducente imporsi di farli, dal momento che a parità di introito a livello giornaliero non si hanno significativi cambiamenti.
Avere una mente flessibile vuol dire saper applicare i principi che apprendiamo alla nostra quotidianità. Se facciamo determinate scelte alimentari (riguardo al numero dei pasti, all’abbinamento tra gli alimenti, alla selezione dei cibi) chiediamoci la motivazione per cui le facciamo. Se questa motivazione non contrasta con gli amplissimi margini che la scienza definisce, se è determinata da obiettivi propri o da patologie che impongono regole, dal fatto che quella scelta ci porta serenità psicologica senza “soffocarci” e ci evita problemi digestivi, allora quella scelta è quella giusta. Se invece è imposta da regole che siamo convinti (per quale motivo?) siano migliori di altre, ma è frustrante e apporta stress, non è la scelta giusta. Quello che è sbagliato è imporsi di default qualcosa nella convinzione che “sia meglio così”, dal momento in cui qualsiasi regola nutrizionale può tranquillamente essere plasmata in base alle esigenze individuali.
Questo in linea generale. in particolare, poi, è necessario far differenza da chi mangia con la piena CONSAPEVOLEZZA del proprio fabbisogno e di quello che assume (presumibilmente avendo obiettivi sportivi, estetici o di salute), con la possibilità di essere ben più flessibile, e chi mangia “INTUITIVAMENTE”, ovvero ascoltando il proprio corpo. Nel secondo caso ad esempio proporre l’importanza della colazione o la “regola del piatto” (inserire tutti i macronutrienti ad ogni pasto) potrebbe essere funzionale in base al fatto che così si possono evitare deficit/esagerazioni. Proprio perché l’equilibrio deve essere appreso, è necessario che si inizi imparando a calibrare la propria giornata (se la base di partenza è un’alimentazione inconsapevole, squilibrata e confusa), mediante principi semplici, ma non assoluti. Da lì, una volta fatto proprio il concetto di moderazione e variabilità, è possibile imparare ad essere più flessibili, aggiustando il tiro in base alle proprie necessità, anche in base al singolo giorno.
Concludendo, come premesso la scienza della nutrizione si adopera per perfezionare le conoscenze nel tempo, non per imporre linee di demarcazione nette tra quello che si “deve” e “non si deve fare”, ma disegnando ampi e flessibili confini per migliorare la nostra vita, adeguando le varie possibilità alla nostra quotidianità, necessità e sostenibilità psicologica. Infine essendo l’alimentazione un comportamento, dunque mediato da variabili psicologiche, emotive e sociali, è necessario valutare se l’attenzione alle regole alimentari sia limitata o sia sfociata in un’ossessione, e se la presenza di meccanismi disfunzionali in relazione al cibo non denoti una mancanza di equilibrio interiore: in quel caso diventa insufficiente la figura del nutrizionista per spiegare “cosa”, e necessaria la figura di uno psicologo per comprendere insieme “come”, in un percorso di rieducazione all’equilibrio.

Il mio articolo per Studio Trainer Italia