mercoledì 30 novembre 2016

Cheat meal e abbuffata. Similitudini, differenze e meccanismi psicologici sottostanti

Cosa sia un cheat meal è chiaro ormai più o meno a tutti: viene considerato un pasto, all’interno di un determinato regime, in cui ci si concede qualcosa di diverso.
“Diverso” può essere inteso in termini di quantità (andando dunque oltre ai macronutrienti prestabiliti) oppure di qualità (dunque a base di alimenti meno “healthy”). C’è chi lo attua in modo consapevole, comunque “limitandosi”, e chi invece si lascia andare del tutto concedendosi grandi quantità di cibo, spesso perdendo il piacere di gustarlo ma solo con la finalità di riempirsi il più possibile, magari proiettandosi già nella restrizione a cui dovrà nuovamente sottoporsi.
Personalmente condivido il cheat meal solo in periodi limitati di tempo in cui la persona (vuoi per finalità sportive o altro) necessita di seguire un regime rigido e impostato in base a parametri molto restrittivi. Nell’ottica di uno stile di vita equilibrato, consapevole e sostenibile nel lungo termine sarebbe necessario riuscire ad includere in modo ponderato e limitato determinati alimenti o determinati “eccessi” con flessibilità ed elasticità all’interno del proprio comportamento alimentare senza doversi auto prescrivere in maniera rigida un momento particolare finalizzato ad una “disinibizione”.

E invece un’abbuffata cos’è?

Un’abbuffata è un pasto in cui la persona ingerisce una grandissima quantità di cibo (molto di più di quello che un individuo riuscirebbe a fare nello stesso intervallo di tempo) accompagnato da una perdita di controllo.
Spesso cheat meal e abbuffata corrispondono.  In questo caso però è frequente che la “perdita di controllo” sia posteriore all’inizio dell’abbuffata.
Ovvero, la persona decide consapevolmente quando collocare temporalmente il pasto e, una volta iniziato, non riesce più a fermarsi. Questo può accadere per una questione cognitiva. Il meccanismo psicologico del “tutto o niente” (spesso presente appunto in regimi vissuti in modo fortemente opprimente) fa in modo che una volta iniziato, con l’idea del “…ormai” si perdano completamente i freni inibitori. La disinibizione può avvenire anche in momenti in cui la persona (per questioni sociali) si trova “costretta” a dover “sgarrare” dalla dieta anche solo con un piccolo assaggio, e provando la sensazione di aver “ormai” infranto le rigide regole si lascia andare in maniera sconsiderata.

L’ondata emotiva

Vi è però un altro tipo di abbuffata, e non sempre è collegata ad un regime restrittivo. È quella in cui l’individuo viene inaspettatamente travolto da un’ondata emotiva (pertanto non programmabile), da un impulso irrefrenabile e repentino che la porta, privandola in buona parte della consapevolezza e della coscienza relativa all’approccio col cibo, ad ingurgitare senza controllo una grandissima quantità di alimenti. Alla base di questo tipo di comportamento vi è appunto come anticipato la componente emotiva, dunque un meccanismo radicato e disfunzionale di “sfogare” le proprie emozioni su qualcosa che a quelle emozioni non dovrebbe essere collegato. Il cibo non è infatti un mezzo per soffocare la propria rabbia, la propria tristezza o lo stress del quotidiano: è fondamentale apprendere come scindere queste due sfere (alimentazione e emotività) per vivere in modo equilibrato il rapporto con esso.
In entrambe le situazioni è frequente che si presentino successivamente forti sensi di colpa (argomento che affronterò in un articolo a parte perché credo che meriti approfondimento ulteriore) che creano dolore e disagio profondo.
Se dunque nel primo caso è possibile (anche se molte volte non sufficiente, quando il meccanismo cognitivo del “tutto o niente” caratterizza la personalità intrinsecamente e profondamente portandola ad essere rigida su molti fronti della propria vita) uscire dalla situazione di abbuffata, “riequilibrando” la propria alimentazione e concedendosi una maggiore elasticità, nel secondo, quello in cui la causa scatenante è un rapporto mal gestito con le proprie emozioni, la necessità di un percorso psicologico diventa sostanziale per evitare di mantenere un circolo vizioso disfunzionale composto da nodi da sciogliere riguardo alla propria vita.
Il mio articolo per Studio Trainer Italia

L’ansia. Conoscerla e riconoscerla per imparare a gestirla

La paura è una risposta emotiva ad una minaccia o ad un rischio esterno e ben definito; è caratterizzata dall’individuazione istantanea del pericolo presente e dalla coerenza tra lo stimolo e la paura stessa. È una reazione adattiva, in quanto mette il corpo in allerta e lo prepara alla reazione di attacco-fuga, per auto tutelarsi e scappare: è dunque un meccanismo di “sopravvivenza” funzionale, conseguenza di cause esterne e facilmente individuabili.

L’ansia, invece, è una emozione composta da una costellazione di sintomi sul piano fisiologico (che interessano l’apparato cardiocircolatorio, gastrointestinale, respiratorio, ed in generale neurovegetativo), cognitivo (la catastrofizzazione, la valutazione irrazionale della realtà, il perfezionismo, l’astrazione selettiva, l’autosvalutazione) e comportamentale (evitamento o fuga dalla situazione stessa) definibile come uno stato di agitazione o fastidiosa tensione data dalla previsione (irrealistica e catastrofica) di un pericolo imminente. Dunque l’ansia è spesso eccessiva e poco coerente rispetto allo stimolo che la fa scaturire, e dipende sostanzialmente dalla modalità della persona di approcciarsi con le situazioni: spesso è la mancanza di un concreto esame di realtà che fa in modo di esasperare uno status che di per se potrebbe risultare funzionale. Si può definire “normale” quell’ansia che viene gestita mediante strategie costruttive: essa diventa invece “patologica” quando l’individuo agisce mediante meccanismi disfunzionali. Se l’individuo infatti non mantiene un buon esame della realtà catastrofizzando l’esito di una situazione vi è il rischio di un “blocco”, che può portare all’evitamento: tale reazione è “funzionale a far calare l’ansia nell’immediato, ma è disfunzionale in quanto rinforza il meccanismo disadattivo.

Assenza, eccesso e normalità… come i livelli di ansia incidono sugli eventi?

Lo stato emotivo, come anticipato, porta a conseguenze negative o positive in relazione al grado della sua intensità. In prossimità di una gara, di un esame o di una situazione in cui l’individuo deve essere “efficiente” un giusto livello di attivazione (arousal) è funzionale in quanto permette di tenere alte la motivazione e la tensione. Quando diventa invece ansia eccessiva invece può portare ad un irrigidimento delle capacità cognitive  e motorie (quando inesistente, invece può essere causa di disimpegno e indifferenza).
Nello sport si possono individuare diversi tipi di ansia: l’ansia da prestazione, l’ansia di non essere all’altezza, l’ansia di mantenere determinati risultati di performance avuti in precedenza, l’ansia di gareggiare di fronte ad un pubblico (fondamentale, prima di identificare eventuali cause intrapsichiche, individuare se i sintomi fisiologici dell’ansia possano essere determinati da altri fattori, quali un abuso di sostanze stimolanti, un’alimentazione inadeguata o un eccesso di attività fisica).

Impariamo a gestirla!

Il primo passo (per un atleta in particolare ma per qualsiasi individuo in generale) è la consapevolezza del proprio stato emotivo: imparare a comprendere “cosa” fa scaturire l’ansia, non tanto in termini di evento (facilmente identificabile), quanto piuttosto nei termini della nostra “previsione di insuccesso” o “risultato nefasto”. Tra l’evento e il significato che noi diamo ad esso esiste infatti un “filtro mentale” più o meno funzionale (pensieri automatici inconsapevoli). Dunque imparare a “capirsi”, analizzando ogni aspetto di una situazione e cercando di comprendere come il nostro approccio ad essa possa modulare l’eventuale risultato, mediante un attendo esame di realtà (ovvero una visione “concreta” e non “idealizzata” in maniera esasperatamente e irrealisticamente negativa) farà in modo di riuscire a gestire in modo più funzionale le situazioni, riuscendo a trarne vantaggio in termini di performance.
Il mio articolo per Ironmanager.it

lunedì 17 ottobre 2016

DONNE E FASE DI MASSA: APPROCCIO MENTALE FUNZIONALE ALLA “METAMORFOSI”



Settembre, periodo di nuovi inizi. Finisce l’estate, le giornate iniziano ad accorciarsi e il clima a farsi più frizzante. Abbandonato il costume in gran parte di Italia, tanti (e tante) ricominciano a pensare alla palestra (alcuni non l’hanno proprio abbandonata, altri l’hanno messa in stand by per un breve periodo, altri ancora si sono presi una pausa più lunga). Ad ogni modo con l’inizio dell’autunno si torna a pensare in modo concreto a come organizzare l’anno “sportivo”. Alcuni cambiano palestra, altri iniziano a farsi seguire da personale qualificato in modo da raggiungere obiettivi tanto bramati e spesso rimandati.
Quello che accumuna gran parte delle persone che frequentano la palestra in questo periodo è l’inizio di una fase finalizzata all’accrescimento della massa muscolare, ovvero la “fase di massa”, definita tale appunto per il fatto che la sinergia tra alimentazione e allenamento porterà a tale risultato: un incremento ponderale in termini di massa magra (e, in conseguenza, anche di massa grassa, in base al surplus della dieta). Tantissime ragazze si “lanciano” in questa fase, un po’ per emulare i propri “idoli”, un po’ per modificare il proprio aspetto fisico al fine di vedersi più “toniche” (e definite l’anno successivo).
C’è da distinguere di certo chi percorre fasi di massa un po’ estreme, che contemplano un incremento di massa piuttosto impegnativo (con conseguente aumento anche di massa grassa) e chi invece si approccia ad un percorso più sostenibile, una sorta di lean bulk (massa pulita). In entrambi i casi però bisogna prendere in considerazione alcuni fattori, da non sottovalutare per vivere serenamente il periodo.
Perché? Perché troppe persone iniziano un percorso focalizzandosi sull’obiettivo senza però ponderare in maniera preventiva il “viaggio”, arrivando a metà sentendosi spiazzate da una “forma” che non sentono loro, vivendo un disagio per un corpo che non appartiene alla persona che lo indossa.
L’orgoglio e l’amore per il proprio corpo è un equilibrio spesso fragile e vulnerabile. Avviene talvolta che quando si inizia un percorso volto al cambiamento questa “vittoria” non si sia ancora raggiunta del tutto, ma che si sia raggiunta una fase di accettazione. Dunque “sono così, va bene, ma voglio essere meglio”. Accade però che tra il “va bene” e il “voglio essere meglio” si inserisca una fase in cui “mi vedo peggio di come già non mi vedevo bene, a questo non avevo pensato e mi crea disagio”.
A cosa è dovuto questo “mi vedo peggio”?  All’incremento del peso sulla bilancia, valore troppe volte preso come determinante (specialmente da persone che per tutta la vita hanno “giocato al ribasso”), nonostante non riveli effettivamente la composizione di tale incremento: qualsiasi variazione in positivo può portare (a causa di pensieri automatici e sottostanti) a una situazione di abbattimento e disagio. Dunque il primo passo è non guardare i numero, ma guardare lo specchio (a tale proposito mi rivolgo anche ai preparatori e ai PT del caso: incentivate, spronate, affiancate le vostre ragazze; è un percorso spesso non facile ma “per vedere il panorama bisogna scalare la montagna” e la guida, oltre ad indicare il percorso, deve anche sostenere tenendo per mano).
E se il “non guardare la bilancia” non basta, perché anche lo specchio riflette un’immagine che non ci aspettavamo di vedere? È piuttosto frequente che accada. Il pantalone che fatica a chiudersi, quel filo di ritenzione in più, l’addome più appannato. Sono situazioni che è necessario contemplare anticipatamente, prima di trovarvisi dentro. L’obiettivo è avere ben in testa che stiamo percorrendo una strada, fatta di sudore e fatica, ma anche di tanta passione e dedizione, che ha lo scopo di portare il corpo ad una forma più forte o comunque ambita. Non bisogna vivere solo in funzione del risultato, ma assaporando ogni attimo del cambiamento, pensando che si sta lavorando per se stessi, per la propria “metamorfosi” e per il proprio benessere. Il percorso di acquisizione di massa muscolare non deve (a parer mio) essere vissuto solo come una svolta estetica, ben più come una “sfida” CON (e non CONTRO) se stessi.
Non si è il pantalone che non si chiude, non si è l’addome appannato o il mezzo chilo in più sulla bilancia. Quando si decide di cambiare si è grinta, tenacia, forza di volontà, passione e motivazione. Il corpo è una sostanza plastica che decidiamo di plasmare con le nostre stesse mani, concentrandoci non solo sul “cosa” vogliamo tirarne fuori ma soprattutto sul “come”. Qualsiasi status intermedio è preludio di qualcosa che porterà soddisfazione sul piano fisico e mentale.
Godersi ogni passo e viverlo in maniera serena e consapevole, senza trovarsi spiazzati di fronte a qualcosa che non ci si aspettava, fa in modo di arrivare alla meta in maniera più determinata e lineare possibile, senza scoraggiarsi o perdersi d’animo, senza “inciampare” o, nel caso lo si faccia, con le strategie per rialzarsi come in un burpee.

Il mio articolo per Studiotraineritalia.com

Le critiche degli altri

Capita che quando si intraprende un percorso di cambiamento che implichi una modifica delle abitudini precedenti, magari sul piano di un miglioramento delle abitudini alimentari o sulla frequenza dell'attività fisica, non manchino le critiche, i commenti velatamente negativi ed il continuo rimarcare da parte degli altri il cambiamento e la diversità (spesso con accezione negativa): "Sei cambiato", "prima eri diverso", "non ti riconosco più", " sei diventato "fissato" ". Partiamo dal presupposto che spesso può essere più una percezione che un dato di fatto. Il cambiamento comporta una messa in discussione di determinate abitudini che ci portano ad essere più vulnerabili e a percepire in maniera più dilatata le parole degli altri. Ma se la critica è palese ed esplicita innanzitutto è bene riflettere razionalmente sull'eventuale fondatezza della stessa (in certi casi potrebbero essere valide, ad esempio quando il cambiamento rasenta l'ossessione: in quel caso è bene dunque contemplare un percorso  per uscire da una rigidità, da una "fissazione" che porta a vivere con poca serenità).
Ma in alternativa, perché ci criticano? E perché quelle critiche ci rimbombano dentro?
Nel primo caso le ragioni potrebbero essere molte: ad esempio la tendenza naturale dell'uomo a razionalizzare, dunque a giustificare un proprio comportamento negativo screditando una scelta alternativa (la scelta di cambiare in positivo, ad esempio, trovando le strategie per muoversi verso un miglioramento, scastrandosi da una omeostasi sicura ma non ottimale), oppure la mancata capacità di comprendere, la difficoltà a trovare compromessi perché non sono loro ad essere cambiati (dunque il difetto si proietta nella persona che ha modificato la propria vita allontanandosi da uno status comune, a prescindere). La risposta alla seconda domanda può variare: le parole degli altri possono toccarci perché, come anticipato, in un percorso evolutivo vi è un fisiologico periodo in cui si ha la paura, oltre che di arrestarsi, di tornare alle abitudini precedenti, dunque è naturale avere timore che l'influenza altrui possa determinare tale effetto. Oppure potrebbe darsi che ci faccia rabbia che proprio gli altri, con abitudini sbagliate, si permettano di giudicare una scelta di salute (della serie "da che pulpito"). In quel caso è bene ricordare innanzitutto la questione della razionalizzazione espressa sopra, secondariamente la propria forma mentis prima di acquisire la motivazione al cambiamento.
Quindi come mi devo comportare?
Al momento in cui accusiamo una critica è bene valutare se essa è reale oppure solo percepita, se è motivata oppure no, conseguentemente cercare di capire il motivo per cui ci tocca, ma sopratutto comprendere il motivo per cui gli altri si sentono in dovere di esporla. Non tutti condividono, tanti non approvano, alcuni giudicano o screditano. Ma siamo davvero noi quelli "diversi"? Sì, ma diversità non è sinonimo di errore, anzi. Nella vita esiste un ampio range di scelte che non possono essere etichettate come sbagliate, tra cui certamente l'intraprendere una strada di cambiamento volta al miglioramento fisico e mentale. Sarebbe buona norma sostenere le persone che ci sono vicine, ma non possiamo pretenderlo. Scegliamo la nostra strada e in modo indipendente scegliamo di percorrerla. Non è possibile fare in modo che tutti apprezzino un percorso, ma possiamo prendere consapevolezza della soddisfazione e della positività del nostro cambiamento e della nostra scelta, con piena coscienza della propria autoefficacia. Potrà avvenire che col tempo si venga "accettati", "capiti", addirittura "seguiti". Nel frattempo è giusto progredire verso la propria realizzazione, facendo tesoro delle critiche "costruttive", impermeabili a quelle "distruttive".

Il mio articolo per Ironmanager.it

Reader InteraIl mio articolo per Ironmanager.it

martedì 13 settembre 2016

Programmazione nello sport: Quando l’approccio della mente può essere funzionale

La programmazione è un processo che teoricamente accompagna qualsiasi scelta e momento della vita. Non è dunque un programma statico o rigido, bensì un esplicarsi “in itinere” del percorso in base alle variabili di partenza e alle situazioni, agli eventi e ad i cambiamenti in corso d’opera.
Nella programmazione sportiva è necessario prendere in considerazione molteplici fattori, affinchè essa sia modellata dinamicamente sull’individuo e focalizzata sul risultato finale in modo ottimale ricordando che non esiste un programma perfetto di default, ma una programmazione “giusta” e differenziata per ognuno. Affinchè diventi davvero utile, infatti, come anticipato, un programma deve essere modulato e calibrato in base alle caratteristiche e agli obiettivi del singolo, tenendo conto del contesto.


Decidere i propri obiettivi

Innanzitutto, per decidere i propri obiettivi è necessario tenere presenti i “limiti” (si intendano i limiti concreti e reali, non quelli creati dalla propria mente) che si hanno: limiti di tempo, economici, fisici… e valutare se questi limiti possano essere superati. Focalizzare un obiettivo concreto e fattibile mediante un percorso coerente ad esso è il primo passo per non perdere la motivazione, dal momento in cui prevedere un obiettivo troppo alto (magari prendendo come “esempio” qualcun altro, con diverse possibilità e diverse caratteristiche) può portare a scoraggiamento. Un’analisi obiettiva delle caratteristiche di partenza è fondamentale per avere un quadro della situazione chiaro e realistico  affinchè gli obiettivi non siano né troppo elevati né troppo bassi. Fondamentale anche imparare ad avere il quadro della situazione nella sua complessità ed in generale, senza focalizzarsi o ossessionarsi su minuzie inutili o secondarie ma valutando il peso  che ogni variabile ha nel sistema. 
Oltre agli obiettivi, è necessario che i passi per raggiungerli siano (sempre flessibilmente) valutati in maniera realistica anche in relazione al tempo: imporsi tabelle di allenamento o alimentazioni rigide, drastiche, selettive e stressanti per il fisico è poco funzionale specialmente se non ambiamo a salire su un palco, o non vogliamo farlo nel breve termine. Studiare le “tappe” del percorso serve proprio sia a non arrivare alla fine “impreparati” rispetto a ciò che si desiderava (che sia una gara o un semplice risultato estetico) sia a fare in modo che il percorso sia sostenibile e bilanciato in ogni fase, senza dover fare tutto subito o tutto alla fine.

Ascoltare il proprio corpo

Quello che ritengo importante (in relazione alla mia professione) è anche imparare ad ascoltare il proprio corpo. La tabella è un’indicazione ma non pensa. Dunque se riteniamo che in determinati periodi di stress (collegati ad altre sfere della vita) o di stanchezza sia giusto o necessario allentare il tiro è bene farlo, analizzando ovviamente la situazione e cercando di comprendere anche se le cause possano essere collegate ad una perdita di motivazione. Il forzare infatti il proprio corpo a fare qualcosa potrebbe essere controproducente e quindi minare gli effetti positivi che la programmazione prevederebbe.
Altri punti da tenere sempre in considerazione sono i seguenti:
  • Valutare i risultati ad ogni fase (dunque ricercare i feedback della programmazione) è utile sia per tenere alta la motivazione, sia per aggiustare il tiro step by step al fine di ottimizzare la stessa.
  • Mantenere corpo e mente continuamente stimolati, senza rischiare di cadere nella monotonia e nell’appiattimento, sperimentando anche grazie al coach, studiando, informandosi rimanendo connesso con il proprio obiettivo con equilibrio e consapevolezza, seguendolo con costanza.
  • Esercitare la tolleranza alla frustrazione dovuta al dover attendere per il raggiungimento degli obiettivi, ricordando che non esiste il “tutto e subito”, imparando a riconoscere anche i risultati raggiunti senza sminuirli.
  • Allenare, oltre al corpo, la propria autoefficacia (ovvero la fiducia che si ha nelle proprie capacità, nell’avere strategie funzionali e nel raggiungere un risultato) e la propria resilienza (la capacità di fronteggiare gli eventi negativi, di riorganizzare la situazione in modo positivo riuscendo a “rialzarsi più forti di prima”) e la propria autostima.
  • Imparare a mappare i problemi, cercando di comprenderne le radici al fine di risolverli e decidere di agire in base alle risposte ottenute.
In conclusione, un’immagine a parer mio rappresentativa può essere questa: il corpo è una macchina alla cui guida sta la mente. Dunque la programmazione deve prevedere la collaborazione tra i due, al fine di essere soddisfacente e funzionale all’obiettivo che ci si propone.

Il mio articolo per Studio Trainer Italia

I programmi dimagranti e i pasti sostitutivi: Funzionano davvero?

L’arrivo dell’estate è preceduto, di pochi giorni o settimane, da numerosi metodi lampo per arrivare in spiaggia con una forma invidiabile per “rimediare” ai numerosi sgarri del periodo invernale e alla pigrizia, la cui combinazione ha probabilmente garantito una forma piuttosto appesantita di cui, alle porte della bella stagione, ci si vuole liberare.
Troppo spesso poco ci si concentra sul “come” raggiungere tale forma, purchè la si ottenga in breve tempo e il più agilmente possibile. Tali metodi comprendono diete scriteriate, poco equilibrate e sempre molto scarse (di cui è già stato trattato) su giornali o riviste patinate di larga diffusione, oppure l’utilizzo di programmi dimagranti. Ovvero? Sono programmi finalizzati ad ottenere una perdita di peso consistente in breve tempo, che prevedono l’utilizzo di pasti sostitutivi, integratori, drenanti…


Cosa promettono?

Assicurano risultati rapidi, duraturi e senza fatica, puntando anche su testimonial famosi, influencer (persone “comuni”, non particolarmente note, ma più “vicine” al potenziale cliente per più ordini di fattori) o personaggi che mostrano prima/dopo in modo particolarmente convincente, importanti campagne pubblicitarie o metodi di vendita del tipo “network marketing”. Ovviamente focalizzano la comunicazione persuasiva sulla forte perdita di peso nel breve termine, portando a proprio favore dati percentuali spesso falsati o che comunque non fanno menzione del fatto che nella stragrande maggioranza dei casi a conclusione del programma la persona riprenda tutto il peso perso, a volte con “gli interessi”.

Cosa sono in realtà?

Sono nient’altro che programmi alimentari stilati in modo da garantire un apporto calorico molto basso, e dunque una perdita di peso sicura.
Funzionano nel breve termine? Assolutamente sì, come qualsiasi alimentazione restrittiva che porti ad un deficit calorico piuttosto marcato. Questo implica una perdita di peso immediata (che ovviamente non comporta esclusivamente perdita di massa grassa, ben più perdita di liquidi e massa muscolare) con conseguente probabile stallo metabolico.
Funzionano nel lungo termine? Nella maggior parte dei casi no, per più ordini di ragioni. Innanzitutto, come anticipato, alla repentina perdita di peso conseguirà uno stallo, che avrà un impatto negativo sulla motivazione e sull’umore della persona, che facilmente abbandonerà il programma. In alternativa, il programma potrà essere abbandonato per ragioni economiche (generalmente sono molto dispendiosi) o per questioni di insostenibilità a livello psicologico o di gestione. Un programma che implichi integratori o pasti sostitutivi (dunque liofilizzati) è poco soddisfacente e impossibile da protrarre nel lungo termine. Non insegna a nutrirsi in maniera adeguata ma mette solo in “stand by” rispetto ad un’alimentazione eccessiva, inadeguata o poco bilanciata che al termine del programma verrà con buona probabilità ripresa.
La perdita di peso viene infatti mantenuta solo nel caso in cui la persona, successivamente all’interruzione del programma, decida di mettere in atto un’alimentazione bilanciata e moderata (cosa che avrebbe potuto comunque fare prima, evitando probabilmente eventuali problemi di rallentamento del metabolismo a cui certi programmi portano con frequenza).

Quali sono i rischi?

Il  soggetto, le cui caratteristiche psicologiche potrebbero essere (in misura maggiore o minore) locus of control principalmente esterno, scarso senso di autoefficacia e sfiducia in se stesso, si affida a “METODI MIRACOLOSI” (pasticche dimagranti, pasti sostitutivi… ) che non richiedano troppo sacrificio o forza di volontà, col fine di conseguire obiettivi estetici che in alcuni casi (a causa di tali modalità) si scontrano inevitabilmente con i fini salutistici che dovrebbero primeggiare. Tali soggetti mettono dunque nelle mani di un prodotto o di un “guru” ciò che non riescono (o meglio, pensano di non riuscire) a fare da soli, senza focalizzare adeguatamente sul piano della realtà quelli che possono essere i rischi o le false promesse ed attribuendo al mezzo, e non a se stessi, la responsabilità degli obiettivi che vogliono raggiungere.
Questo meccanismo, se il programma (come probabile) risulta fallimentare, rischia di mantenere e rinforzare il convincimento di essere completamente privi di strategie, piegati all’evidenza della propria mancata capacità e dunque di rimandare all’infinito il percorso verso una perdita di peso sana.
Concludendo, questi metodi hanno un effetto nel qui e ora e non nel lungo termine, dal momento in cui una persona che necessita di una perdita di peso deve essere motivata a conseguire un percorso di rieducazione alimentare che preveda la consapevolezza di ciò che deve assumere, visto che il sovrappeso è sempre (a meno di patologie) determinato da una cattiva/eccessiva alimentazione che deve essere riequilibrata. Dunque prendere in mano le redini della gestione del proprio equilibrio alimentare con pazienza, motivazione, criterio e consapevolezza (guidati o meno da un professionista in base alla necessità) è il primo indiscutibile passo necessario per intraprendere uno stile di vita sano e duraturo e il mantenimento di un peso adeguato nel lungo termine prendendo atto del fatto che i miracoli e le scorciatoie non esistono ma esistono solo la costanza e la determinazione.

Il mio articolo per Studio Trainer Italia

mercoledì 7 settembre 2016

Dieta Rigida VS Dieta Flessibile: Gestione e approccio psicologico

Quando ci si appresta a perdere peso o in generale a modificare la propria alimentazione (per obiettivo salutistico o sportivo) è necessario fare una scelta tra diversi percorsi, che si differenziano collocandosi in un continuum ai cui estremi troviamo la dieta rigida (non intesa necessariamente come forte restrizione calorica, piuttosto come impostazione molto schematica riguardo alla scelta degli alimenti e all’impostazione dei pasti) e dall’altra la dieta flessibile. Ogni approccio alimentare ha dei pro e dei contro.

Analizzando le caratteristiche di ciascuna delle due, nel primo caso il piano preimpostato nelle dosi e nel numero dei pasti (calibrato rispetto ad un preciso apporto calorico e ripartizione di macronutrienti) che garantisce poca flessibilità nella scelta degli alimenti è semplice da seguire a livello tecnico perché non ci sono ampi margini di modifica: esso se strutturato bene apporta macro e micro nutrienti nelle giuste dosi in modo bilanciato.
Ha però alcuni punti di debolezza: è la persona che si adatta alla dieta e non viceversa. Non essendo troppo elastica nella scelta degli alimenti e per niente nella struttura dei pasti porta la persona a vivere passivamente l’alimentazione. Se da un lato può apparire rassicurante dall’altro può diventare stretta ed insostenibile, provocando effetto di reattanza psicologica (in pratica ribellione ad una “imposizione”) e spesso abbandono della stessa. La dieta rigida dice COSA mangiare ma non INSEGNA come. È necessaria forte motivazione per aderire a tale regime, che ad ogni modo non è semplice da gestire sul piano sociale (non infrequente l’isolamento e l’evitamento delle situazioni “a rischio” sgarro). Inoltre, una volta raggiunto l’eventuale obiettivo della perdita di peso la persona non è ancora autonoma nel riuscire a gestire la propria alimentazione dal momento che questa, se in partenza squilibrata o eccessiva, avrebbe dovuto necessariamente implicare una “rieducazione”. Può essere utile al fine del raggiungimento di obiettivi sportivi nel breve termine, a fronte di una forte motivazione da parte del soggetto.

Tra la dieta rigida e la dieta flessibile si situa un tipo di regime conosciuto come IIFYM, basato sul conteggio calorico e sulla ripartizione dei macronutrienti nell’arco della giornata. A suo favore ci sono diversi punti: la dieta si adatta alla persona, che deve imparare ad autogestirsi in maniera elastica in base a ciò che può e che deve assumere. In questo modo riesce a vivere le situazioni sociali senza apportare modifiche al piano dei macronutrienti, può scegliere il tipo di alimenti, la composizione dei pasti e la distribuzione durante la giornata. È sostenibile perché prolungabile nel tempo e assolutamente gestibile con coscienza e consapevolezza, in base alle proprie necessità e abitudini. Vi è però il rischio che, dovendosi basare esclusivamente sulla quantità dei macronutrienti, la persona perda di vista un po’ troppo spesso l’attenzione alla scelta degli alimenti che può portare ad uno scarso apporto di micronutrienti e alla selezione eccessiva di alimenti “non sani”. A livello psicologico il rischio è di entrare nel circolo del conteggio ossessivo delle calorie (le quali nella dieta rigida sono invece precontemplate, dunque non è necessario approcciarvisi costantemente), o di fare grandi abbuffate seguite da forte restrizione compensativa non riuscendo a gestire un equilibrio. Esso in non rari casi può essere contemplato come una sorta di “gabbia d’oro”: molte persone si nascondono dietro a tale tipo di regime per mantenere una disfunzionale sicurezza sulla propria alimentazione; la paura di uscire fuori da un meccanismo numerico per il terrore di lasciarsi andare, di perdere il controllo e di avere conseguenze sul piano fisico (valutate spesso in modo irrazionalmente ed eccessivamente catastrofico) porta dunque a incastrarsi e a mantenersi all’interno di questo meccanismo poco sano e poco sereno. 

La dieta flessibile è invece una dieta (intesa come stile di vita) elastica che si adatta alla persona ed al contesto senza tenere rigorosamente conto di calorie e macronutrenti partendo dal presupposto che il corpo non è una macchina rigida ma appunto duttile, che si adatta continuamente aggiustando il tiro in relazione alle piccole variazioni quotidiane e che il conteggio calorico è spesso mera illusione, dal momento che non potremo MAI esattamente conoscere l’introito in base a tantissime variabili (contenuto di acqua, maturazione…). La dieta flessibile non comporta conteggi e schemi. Si basa sulla consapevolezza della persona, sulla conoscenza delle sue necessità e sulle sue abitudini, sulla rotazione degli alimenti, la varietà e l’elasticità, ed è sostenibile nel lungo periodo (diventa dunque uno stile di vita). Ovviamente questo tipo di approccio implica (come anticipato) una “rieducazione alimentare” per quanto riguarda soprattutto il “come” applicare i principi basilari di una sana alimentazione.
Tale scelta deve comportare che il rapporto col cibo sia sereno, senza che vi siano legami disfunzionali tra questo ed il piano emotivo (dunque se il soggetto proviene da un rapporto contrastante col cibo, che sia esso un disturbo alimentare conclamato o una relazione poco serena con l’alimentazione vi è la necessità imperante di risolvere tale problema mediante un supporto psicologico che sciolga i nodi di questo conflitto) e che la persona abbia coscienza dei propri meccanismi di fame e sazietà (senza farsi troppo influenzare da variabili esterne). Il pro e il contro della dieta flessibile è sovrapponibile perché è uno solo. Il soggetto deve infatti trovare l’energia, la motivazione e la forza di diventare promotore attivo delle proprie scelte e del proprio benessere, con consapevolezza e coscienza, riuscendo a gestire e mantenere un equilibrio in maniera durevole senza essere succube di schemi preimpostati: è funambolo sul nastro della propria alimentazione e della propria salute senza aggrapparsi, senza sbilanciarsi in maniera eccessiva, consapevole del proprio baricentro ed esercitando la stabilità in modo naturale. Grazie a queste caratteristiche la dieta flessibile ha le carte in regola per ergersi come la migliore espressione alimentare proiettata nell’ottica di uno stile di vita equilibrato e sano nel lungo termine.

Il mio articolo per Studio Trainer Italia