mercoledì 30 novembre 2016

Cheat meal e abbuffata. Similitudini, differenze e meccanismi psicologici sottostanti

Cosa sia un cheat meal è chiaro ormai più o meno a tutti: viene considerato un pasto, all’interno di un determinato regime, in cui ci si concede qualcosa di diverso.
“Diverso” può essere inteso in termini di quantità (andando dunque oltre ai macronutrienti prestabiliti) oppure di qualità (dunque a base di alimenti meno “healthy”). C’è chi lo attua in modo consapevole, comunque “limitandosi”, e chi invece si lascia andare del tutto concedendosi grandi quantità di cibo, spesso perdendo il piacere di gustarlo ma solo con la finalità di riempirsi il più possibile, magari proiettandosi già nella restrizione a cui dovrà nuovamente sottoporsi.
Personalmente condivido il cheat meal solo in periodi limitati di tempo in cui la persona (vuoi per finalità sportive o altro) necessita di seguire un regime rigido e impostato in base a parametri molto restrittivi. Nell’ottica di uno stile di vita equilibrato, consapevole e sostenibile nel lungo termine sarebbe necessario riuscire ad includere in modo ponderato e limitato determinati alimenti o determinati “eccessi” con flessibilità ed elasticità all’interno del proprio comportamento alimentare senza doversi auto prescrivere in maniera rigida un momento particolare finalizzato ad una “disinibizione”.

E invece un’abbuffata cos’è?

Un’abbuffata è un pasto in cui la persona ingerisce una grandissima quantità di cibo (molto di più di quello che un individuo riuscirebbe a fare nello stesso intervallo di tempo) accompagnato da una perdita di controllo.
Spesso cheat meal e abbuffata corrispondono.  In questo caso però è frequente che la “perdita di controllo” sia posteriore all’inizio dell’abbuffata.
Ovvero, la persona decide consapevolmente quando collocare temporalmente il pasto e, una volta iniziato, non riesce più a fermarsi. Questo può accadere per una questione cognitiva. Il meccanismo psicologico del “tutto o niente” (spesso presente appunto in regimi vissuti in modo fortemente opprimente) fa in modo che una volta iniziato, con l’idea del “…ormai” si perdano completamente i freni inibitori. La disinibizione può avvenire anche in momenti in cui la persona (per questioni sociali) si trova “costretta” a dover “sgarrare” dalla dieta anche solo con un piccolo assaggio, e provando la sensazione di aver “ormai” infranto le rigide regole si lascia andare in maniera sconsiderata.

L’ondata emotiva

Vi è però un altro tipo di abbuffata, e non sempre è collegata ad un regime restrittivo. È quella in cui l’individuo viene inaspettatamente travolto da un’ondata emotiva (pertanto non programmabile), da un impulso irrefrenabile e repentino che la porta, privandola in buona parte della consapevolezza e della coscienza relativa all’approccio col cibo, ad ingurgitare senza controllo una grandissima quantità di alimenti. Alla base di questo tipo di comportamento vi è appunto come anticipato la componente emotiva, dunque un meccanismo radicato e disfunzionale di “sfogare” le proprie emozioni su qualcosa che a quelle emozioni non dovrebbe essere collegato. Il cibo non è infatti un mezzo per soffocare la propria rabbia, la propria tristezza o lo stress del quotidiano: è fondamentale apprendere come scindere queste due sfere (alimentazione e emotività) per vivere in modo equilibrato il rapporto con esso.
In entrambe le situazioni è frequente che si presentino successivamente forti sensi di colpa (argomento che affronterò in un articolo a parte perché credo che meriti approfondimento ulteriore) che creano dolore e disagio profondo.
Se dunque nel primo caso è possibile (anche se molte volte non sufficiente, quando il meccanismo cognitivo del “tutto o niente” caratterizza la personalità intrinsecamente e profondamente portandola ad essere rigida su molti fronti della propria vita) uscire dalla situazione di abbuffata, “riequilibrando” la propria alimentazione e concedendosi una maggiore elasticità, nel secondo, quello in cui la causa scatenante è un rapporto mal gestito con le proprie emozioni, la necessità di un percorso psicologico diventa sostanziale per evitare di mantenere un circolo vizioso disfunzionale composto da nodi da sciogliere riguardo alla propria vita.
Il mio articolo per Studio Trainer Italia

L’ansia. Conoscerla e riconoscerla per imparare a gestirla

La paura è una risposta emotiva ad una minaccia o ad un rischio esterno e ben definito; è caratterizzata dall’individuazione istantanea del pericolo presente e dalla coerenza tra lo stimolo e la paura stessa. È una reazione adattiva, in quanto mette il corpo in allerta e lo prepara alla reazione di attacco-fuga, per auto tutelarsi e scappare: è dunque un meccanismo di “sopravvivenza” funzionale, conseguenza di cause esterne e facilmente individuabili.

L’ansia, invece, è una emozione composta da una costellazione di sintomi sul piano fisiologico (che interessano l’apparato cardiocircolatorio, gastrointestinale, respiratorio, ed in generale neurovegetativo), cognitivo (la catastrofizzazione, la valutazione irrazionale della realtà, il perfezionismo, l’astrazione selettiva, l’autosvalutazione) e comportamentale (evitamento o fuga dalla situazione stessa) definibile come uno stato di agitazione o fastidiosa tensione data dalla previsione (irrealistica e catastrofica) di un pericolo imminente. Dunque l’ansia è spesso eccessiva e poco coerente rispetto allo stimolo che la fa scaturire, e dipende sostanzialmente dalla modalità della persona di approcciarsi con le situazioni: spesso è la mancanza di un concreto esame di realtà che fa in modo di esasperare uno status che di per se potrebbe risultare funzionale. Si può definire “normale” quell’ansia che viene gestita mediante strategie costruttive: essa diventa invece “patologica” quando l’individuo agisce mediante meccanismi disfunzionali. Se l’individuo infatti non mantiene un buon esame della realtà catastrofizzando l’esito di una situazione vi è il rischio di un “blocco”, che può portare all’evitamento: tale reazione è “funzionale a far calare l’ansia nell’immediato, ma è disfunzionale in quanto rinforza il meccanismo disadattivo.

Assenza, eccesso e normalità… come i livelli di ansia incidono sugli eventi?

Lo stato emotivo, come anticipato, porta a conseguenze negative o positive in relazione al grado della sua intensità. In prossimità di una gara, di un esame o di una situazione in cui l’individuo deve essere “efficiente” un giusto livello di attivazione (arousal) è funzionale in quanto permette di tenere alte la motivazione e la tensione. Quando diventa invece ansia eccessiva invece può portare ad un irrigidimento delle capacità cognitive  e motorie (quando inesistente, invece può essere causa di disimpegno e indifferenza).
Nello sport si possono individuare diversi tipi di ansia: l’ansia da prestazione, l’ansia di non essere all’altezza, l’ansia di mantenere determinati risultati di performance avuti in precedenza, l’ansia di gareggiare di fronte ad un pubblico (fondamentale, prima di identificare eventuali cause intrapsichiche, individuare se i sintomi fisiologici dell’ansia possano essere determinati da altri fattori, quali un abuso di sostanze stimolanti, un’alimentazione inadeguata o un eccesso di attività fisica).

Impariamo a gestirla!

Il primo passo (per un atleta in particolare ma per qualsiasi individuo in generale) è la consapevolezza del proprio stato emotivo: imparare a comprendere “cosa” fa scaturire l’ansia, non tanto in termini di evento (facilmente identificabile), quanto piuttosto nei termini della nostra “previsione di insuccesso” o “risultato nefasto”. Tra l’evento e il significato che noi diamo ad esso esiste infatti un “filtro mentale” più o meno funzionale (pensieri automatici inconsapevoli). Dunque imparare a “capirsi”, analizzando ogni aspetto di una situazione e cercando di comprendere come il nostro approccio ad essa possa modulare l’eventuale risultato, mediante un attendo esame di realtà (ovvero una visione “concreta” e non “idealizzata” in maniera esasperatamente e irrealisticamente negativa) farà in modo di riuscire a gestire in modo più funzionale le situazioni, riuscendo a trarne vantaggio in termini di performance.
Il mio articolo per Ironmanager.it